BLACK AND BLUE – ROLLING STONES (1976).

 

Un album importante, “Black and blue”, perché rappresentante in pieno di un periodo transitorio, ma anche per la tutt'altro che facile ricerca di un degno sostituto del dipartito Mick Taylor; proprio per questo motivo, Keith Richards, con una malcelata punta di insoddisfazione verso il lavoro, definirà l’album indicandolo quale “quello dei provini dei chitarristi”.

 

È giunto il momento di scegliere il sostituto di Mick Taylor e la lista è prevedibilmente lunga, succosa, e colma di validi pretendenti: la prima scelta cade su Jeff Beck, il quale, però, era restio ad immettersi nella formazione, poi Peter Frampton, Harvey Mandel, Wayne Perkins (questi due, presenzieranno in metà disco), e tra i favoriti, Steve Marriott, fortemente voluto da Keith, ma respinto da Mick per ragioni di leadership e prestigio, in quanto, ne conosceva bene le capacità vocali, in grado di sovrastare le sue.

 

Alla fine dei giochi però, sarà Ron Wood a spuntarla, complici, soprattutto per le attinenze umane con Keith e “l’ispirazione” (in realtà un furto bello e buono) per il brano “Hey Negrita”, registrato sotto la sigla “Jagger/Richards”, ma per quanto concerne la parte musicale scritto per lo più dalla new entry.

 

Ron, sarà a malapena presente in tre brani su otto e farà in tempo a presentarsi il 27 gennaio (del 1976), a Sanibel Island (in Florida), per la session di foto del disco : fu chiamato all'ultimo minuto da Keith che gli intimò di farsi vivo, "altrimenti non sarai in copertina".

 

La scelta di Wood sarà decisiva per il futuro della band, per quanto nell'album, la sua chitarra, appaia solo in tre brani su otto, oltre a presenziare in qualche coro; ma da allora, eccettuando l’uscita di Bill Wyman, non vi si presenteranno più cambi nella formazione; il diretto interessato, al riguardo, avrà da dire "ero sempre stato un fan anche prima di entrarvi ed è stato un sogno diventato realtà"; e parlando del suo primo concerto con gli Stones a Baton Rouge negli Stati Uniti il 1° giugno 1975 affermerà: "Era il mio ventottesimo compleanno, pensavo che non era affatto un brutto regalo per un ragazzo che ha sempre sognato di diventare un Rolling Stone".

 

Era prassi del periodo, a metà anni ’70, che anche le più celebri rockband (come a loro volta, tra i tanti, si ricorda il caso celebre dei Led Zeppelin, con “D’yer m’ker”), prendessero in prestito elementi dalla musica “nera” al fine di ravvivare il repertorio ed aumentare un discorso artistico, e gli Stones non sono da meno: in un momento di decadenza, la band, si affida più che mai alla black music, facendola però propria e flettendola alle proprie esigenze.

 

Il flat inizia con il funky di “Hot Stuff”, opener che preannuncia l'interesse, pressoché del solo Jagger, per quel genere molto in voga nell'anno d’uscita dell’album: la disco music; genere, che avrebbe posto le basi, di grandi successi della band, tra gli altri, con “Miss You” due anni più tardi.

 

"Hand Of Fate" un buon rock stoniano al 100%, dove tra tutti gli elementi, a risaltare, è principalmente la sfavillante chitarra di Wayne Perkins, con un fraseggio e un lirismo che riescono nel non facile compito di non rammaricarsi per l’assenza di Taylor.

 

Terza traccia, “Cherry oh baby”, è l’unica cover del disco, un onesto reggae orecchiabile, successo del cantautore giamaicano Eric Donaldson, di cinque anni prima, che non sfigura nella setlist: probabilmente, il debito “black”, più evidente tra tutti.

 

“Memory Motel”, è forse tra le canzoni meglio riuscite dell’intero lavoro, e tra quelle che con più facilità rimangono in testa; un brano nato dall'assemblaggio di due idee di canzoni slegate e differenti: una di Jagger e l’altra di Richards, che difatti, su disco, finiranno per dividere anche le parte vocali.

 

Si consiglia, dopo aver fatto propria questa del ‘76, l’imperdibile la versione live, datata 1998, in duetto con Dave Matthews, riscontrabile nel live album “No security”, registrato durante una tappa USA, nel lungo tour che seguì l’uscita di “Bridges to Babylon” ( ampiezza di date e località che, ovviamente, rimbalzò l’Italia…).

 

“Hey Negrita”, della quale ho già accennato, un brano altamente ballabile; si dice che Ronnie si presentò alle session con già il riff principale, lasciandoselo poi rubare da Keith.

 

Scritta assieme al pianista (e già collaboratore dei Beatles) Billy Preston, il jazzato “Melody”, è una piacevole canzone, con due amabili duetti: uno vocale, con protagonisti Jagger e Preston, e l’altro, tra un piano onnipresente e una chitarra che, senza manie di protagonista, entra nei momenti giusti; anche se ha di contro da risultare troppo più lungo del dovuto.

 

Scelta come singolo, la dolce “Fool To Cry”, contrassegnata dal falsetto di un sentimentale Mick, è una dedica scritta per la figlia secondogenita Jade, nata il 21 ottobre 1971 dall'unione con Bianca.

 

Essendo uscita come singolo, fu un tentativo fallito di bissare il successo di “Angie”, ma finì per fare fiasco solo dal punto di vista commerciale, in quanto, la qualità del brano risulta eccelsa: punta di diamante di tutto il lavoro.

 

Chiude anonimamente le danze “Crazy Mama”, tipico rock stonino, che nulla aggiunge e nulla sottrae; pezzo, in cui Keith, assieme alla chitarra, curiosamente, incide le parti di basso di un assente Bill Wyman.

 

A dispetto della sua importanza storica, “Back and blue”, per quanto possa apparire un buon album, vede l’assenza di capolavori, o minimamente, di canzoni degne di apparire nelle future scalette dei concerti; si tratta, ne più e ne meno, di un album di transizione, con alcuni elementi poco riusciti ed alcune canzoni che, anche nella loro atipicità, risultano comunque piacevoli all'ascolto.

 

VOTO 6,5

 

Recensione di Yuri Sfratti