Recensione dell'album Firepower (2018) dei Judas Priest.

 

Accuse di ingaggi di musicisti esterni, cattivo sangue mai rappreso, abbandono dell’attività concertistica di uno dei membri storici: questo disco, che si accompagna a non poche polemiche, non esce ne con le migliori intenzioni, e ancora meno, scortato da un mood tediato, sicuramente, esacerbato dalla querelle -mai sopita- sulla congetturata scarsa qualità del predecessore “Redemeer of souls”.

 

Le tredici canzoni che compongono questo lavoro non brillano per innovazione, e perché mai dovrebbero? Cos'altro può e deve dimostrare una band, che da quarantaquattro anni (tanti ne separano da quel primo “Rocka Rolla” a questo ultimo sorprendente capitolo) a questa parte, ha saputo critto le più entusiasmanti pagine e tra i migliori riff del genere? Niente di niente.

 

Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto, e allora, cos'è che rende questo disco speciale? Forse, ma neanche così tanto incerto, la condizione della percezione di un qualcosa che stia terminando, deve essere stata così forte, da spingere i nostri, a creare quello che sarà ricordato, come uno dei migliori dischi di quest’anno cominciato da appena tre mesi.

 

Certamente, la presenza della vecchia gloria Tom Allom, ha saputo ingranare le marce giuste, svecchiando questi anzianotti d’acciaio, facendoli accomodare sui sedili della macchina del tempo, riportandoli ai tempi in cui, il produttore, accompagnò i nostri a sfornare pietre miliari del calibro di “Defenders Of The Faith” e “Screaming For Vengeance”.

 

Va da se che i tre decenni che separano questi capolavori dai giorni odierni, si fanno sentire, e si odono sia musicalmente che negli scricchiolii delle ossa, e purtroppo, agli scricchiolii, si unisce anche il parkinson per il ritenuto inossidabile Glen Tipton, arrivato a spegnere il traguardo cronologico del settimo decennio di vita, il 25 ottobre scorso, e a terminare un disco potente, con non poca fatica.

 

Per quanto una recensione debba dimostrarsi pressoché nitida e nel possibile distinta dall'anima di chi la stende, personalmente, mi sento in dovere di ringraziare quest’uomo, e questa leggenda del metal, per il coraggio e lo stoicismo col quale ha affrontato e sta affrontando questo terribile male che va affliggendolo da dieci anni.

 

Come nel predecessore, si è cercato di puntare sapientemente sull'impatto del gioco-forza dei primi tre brani: la title-track ci da il benvenuto in disco privo di cali di tensione, col suo riffing tagliente e denso al pari della ghisa; “Lighting strike”, il primo estratto, che già dal suo esordio, qualche mese fa, aveva fatto sobbalzare da sedie e divani, un certo qual numero di metalhead esigenti, sembra essere scritto per il drumming letale di Scott Travis e per gli acuti del grande vecchio, Rob Halford, marchio di fabbrica della band; se questo fulmine a ciel sereno non ha deluso le attese, la conferma la troviamo in “Evil never dies”, con un riff e un incedere più tipico di a certe intenzioni trash metal, ma che va trovando una soluzione su un ritornello di fattura tendenzialmente hard rock.

 

L’atmosfera va incupendosi, con la successiva rocciosa mid-tempo “Never the heroes”, riff e incedere granitico, col basso di Ian Hill ben piazzato in primo piano, con tratti oscuri che vanno lasciando qualche spiraglio di luminosità nel refrain; purtroppo, pur non lasciando stramazzare la tensione con un capitombolo netto, si giunge alla canzone meno accattivante dell’intero pacchetto, “Necromancer”: cercante non si tratta nella maniera assoluta di un brutto pezzo, tutt'altro, ma, pur possedendo un livello qualitativo sopra la media di quanto prodotto e suonato negli ultimi anni da altre band, ha la sfortuna di arrivare al quinto posto nella scaletta, a ridosso di brani praticamente perfetti.

 

Così, senza mai sbadigliare, e continuando il cammino intrapreso da nemmeno venti minuti, arriva “Children of the Sun”, brano che sa stregare col suo procedere altezzoso e ora mellifluo, per portarci in territori già consoni, che sanno apparire straordinariamente inesplorati, in cui il cantato sicuro e superbo, risulta quanto mai protagonista prima, dopo e durante una straordinaria prova chitarristica.

 

“Guardians” e “Rising from ruins” risultano essere lo stesso pezzo, il primo funge da introduzione al secondo: il minuto e sei secondi di delicate e malinconiche note di pianoforte, affrontate da una chitarra decisa, vanno perdendosi in un mescolio con l’entrata dei tamburi da guerra, continuando in un incedere lento, maestoso, senza mai evidenziarsi greve e pedante, e la cui epicità raggiunge il vertice più alto con il pacato, ma deciso, duello di assoli delle due chitarra.

 

Il brano più ispirato del disco, senza ombra di dubbio è“Flame thrower”, risulta essere uno dei migliori episodi: porgendole orecchio fin dai primi secondi, si ha come l’impressione di trovarci di fronte ad un’outtake di “Painkiller”, ma il ritornello che strizza l’occhio al power metal, senza riuscire perdersi nei luoghi comuni del caso.

 

Si arriva, senza neanche essersene resi conto, a “Spectre”, con un riff così sabbathiano che sembra scritto dal mancino di Birmingham anziché dal duo: che Mike Exeter, l’ingegnere del suono di questo disco, ci abbia messo del suo per rendere questo brano così similare nell'atmosfera, a quelle oscure di Iommi & co.?

 

Ricordiamoci delle sue collaborazioni con “l’italiano d’Inghilterra”, fin dal mixaggio del Dep Session con Glenn Hughes del ’96, nel 2004, andando avanti, toccando l’episodio discografico uscito a nome Heavan and Hell, nonché il live dell’ultimo concerto.

 

“Traitors Gate” comincia con un dolce arpeggio, per poi darci ancora un grande heavy metal, con le chitarre di Tipton e Faulkner protagoniste assolute, una coppia che appare ormai perfettamente amalgamata.

 

Più tenue nelle tinte se pur coinvolgente, anche grazie ad un cantato deciso e potente, da affacciarsi quasi arrogante, se pur con leggerezza, appare “No Surrender”.

 

“Lone Wolf”, al pari di “Necromancer”, risulta poco ispirata e scarsamente attraente, ma non per questo si può parlare di una brutta canzone, probabilmente utilizzata come riempitivo, o meglio, per spianare saggiamente la strada al finale di “Sea Of Red”, una dolce e malinconica ballata che va crescendo di intensità col procedere del tempo e che riesce a lambire il cuore di chi ama questa grande band e la sua musica: perfetta in ogni nota, in ogni virgola, in ogni sospiro: miglior finale non si poteva domandare.

 

Non ci è dato sapere se il futuro ci regalerà un altro disco a monicker Judas Priest, personalmente, e viste le vicissitudini di questi ultimi tempi, mi auguro di no; in tal caso, posso dire per certo che, questo “Firepower”, oltre a risultare il migliore lavoro in studio che questa band è riuscita a regalarci dai tempi del –giustamente- osannato “Painkiller”, potrebbe essere il degno epitaffio ad una onorata carriera e ad una storia unica e irripetibile quale si è dimostrata quella di una delle più significative band del metallo pesante.

 

In ogni caso, a prescindere da cosa riserverà il futuro a questa istituzione dell’heavy metal: grazie di tutto, Judas Priest!!!

 

VOTO 8,5 su 10 

 

Recensione di Yuri Sfratti