Recensione album, “Steppenwolf” – Steppenwolf.


"I like smoke and lightning,

HEAVY METAL thunder,
racing with the wind,
and the feelin' that I'm under:
yeah Darlin' go make it happen,
take the world in a love embrace
fire all of your guns at once
                                                         and explode into space.
                                                         Like a true nature's child,
                                                         we were born, born to be wild
                                                         we can climb so high
                                                         I never wanna die:
                                                        Born to be wild
                                                       Born to be wild
"


Con –quasi- tre lustri di anticipo, rispetto a quanto, nel 1980, canterà dall’altra parte dell’Atlantico, coi suoi Saxon, il grave e maestoso Biff Byford, un gruppo di scapestrati rockettari, canteranno di un fantomatico “heavy metal thunder”: è il 1967 (anche se l’album verrà sistemato sugli scaffali dei negozi solamente nel gennaio del 1968, per questioni di stampa), ed è la prima volta che in una canzone appare il termine “heavy metal”; non ci si riferisce al genere musicale, all’epoca –salvo postume speculazioni- irreale ed inesistente, o comunque, ancora li da venire, tanto come attitudine massificata, quanto come terminologia.

 

Ovviamente vi è da puntualizzare che l’espressione heavy metal, non è da relazionarsi al genere musicale, ma bensì ai motori rombanti delle moto, cavalli d’acciaio simbolo di autonomia e indipendenza spirituale.

 

Ma prima di approdare tanto a questa significativa ed epocale canzone, quanto al disco nel quale è contenuta, occorre tornare indietro di una ventina d’anni, e spostarsi di molto ad est, rispetto a dove il blues e l’elettricità di queste note, così nord americane, e così inclini al mito dell’on the road, potrebbero apparire alla stregua di un lontano miraggio:  a Tilsit, nella Prussia orientale, attualmente nell'oblast di Kalingrad (Konigsberg in tedesco), exclave della grande madre Russia incastonato tra Polonia e Lituania, e al  12 aprile 1944, all'epoca, exclave tedesca: ed è in quel giorno, sicuramente piuttosto turbolento visto il periodo, che tra un bombardamento e una sparatoria, vede la luce Joachim Fritz Krauledat; purtroppo per lui, sarà proprio la stessa luce a regalargli il look "tosto" col quale da cinquant'anni appare sulle foto promozionali, sulle copertine dei dischi e in sede live (purtroppo, più raramente, vista l'età avanzata del nostro): occhiale scuro d'ordinanza.

 

"C'è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero" (parafrasando il nostro Battiato), ma questa scelta sarà obbligata e dolorosa, causata una forma invalidande di acromatopsia, accompagnata da un'odiosa ipersensibilità alla luminosità.

 

Una ancora più fastidiosa scelta obbligata, costringerà il piccolo Joachim e sua madre, a fuggire ad Hannover, dalla Berlino est, dove vennero trasferiti a seguito della russificazione forzata dell'exclave prussiana, avvenuta con l'entrata dell'esercito sovietico in loco: aveva quattro anni; saranno proprio nei dieci anni passati nella Bundesrepublik Deutschland, ascoltando l'AFN, l’emittente radiofonica delle forze armate statunitensi, a far appassionare il piccolo Joachim alla nuova musica di Chuck Berry e di Elvis Presley, ma anche al  rhythm and blues, e a tutto quanto attraversava le onde del canale.

 

Nel 1958, con la sua famiglia, si trasferiranno nel nuovo continente, in Canada, per la precisione a Waterloo, nell’Ontario; la futura icona del rock ha quattordici anni, e le vicende narrate fin d’ora, saranno narrate in “Renegade”, contenuta nel quinto album in studio della band della quale diventerà l’immagine, nonché leader, “Steppenwolf 7” (settimo album, se nel conteggio si tiene conto del live "Early Steppenwolf" 1970, intitolato facilmente "Steppenwolf Live").

 

Si arriva così al 1964, Joachim muterà il proprio nominativo, da li a breve, in un più colloquiale e anglofono John Kay, ma ancora non sarà presenzierà quale protagonista assoluto, e ancora meno come protagonista in questa storia: ad Oshawa, in Ontario, esistono gli Sparrow (inizialmente “Jack London & the Sparrow”), capitanati dal misconosciuto cantante e chitarrista Jack London, aka Dave Marden, personaggio oscuro del quale, tempo di lasciare una manciata di singoli nel biennio ’64-’65, si perderanno le tracce.

 

Il resto della ciurma era costituito dal bassista Bruce Palmer, in seguito, in forza ai Buffalo Springfield, dei quali sarà un membro fondatore, in seguito sostituito da Nick St. Nicholas (negli Steppenwolf nel biennio a cavallo tra i due decenni); dal tastierista Dave Hare, presto sostituito da C.J. Feeney; infine, dai fratelli Dennis e Jerry Edmonton, rispettivamente chitarrista e batterista, nonché in ordine di età.

 

Il penultimo, che in seguito adotterà lo stravagante appellativo di “Mars Bonfire”, scriverà il maggiore hit della band, la già citata “Born to be wild”, che, diceria vuole, in fase embrionale fosse ben più lenta di quanto sarà conosciuta, e soprattutto, mancante dell’iniziale riff assassino.

 

A seguito dell’abbandono di Marden/London, sostituito da John Kay, vi saranno, tra il 1965 e il 1967, una serie di sconvolgimenti in seno al gruppo, sconquassi che, oltre a portarli più a sud ovest del confine, in California, a divenire, assieme ad altri nomi illustri quali Youngbloods, Moby Grape, The Doors e Steve Miller Band, protagonisti di pazze e irripetibili notti psichedeliche in locali leggendari quali Matrix, Whisky a Go Go e dell’Avalon Balroom.

 

Giungiamo così alla summer of love, anno di grazia 1967, i nostri hanno già inciso per la Columbia, un intero album a nome John Kay & the Sparrow (), farcito di cover blues riadattate al sound aggressivo del periodo; la line up risulta a questo punto, formata dallo stesso John Kay cantante e chitarrista, quale indiscusso leader, dal tastierista Goldy McJohn (il quale ci ha lasciato quest’estate, 2017, a soli settantadue anni), dal già citato batterista Jerry (1946 – 1993), unico “superstite” della coppia dei fratelli, dal bassista Rushton Moreve (1948 – 1981), e da un giovanissimo chitarrista, all’epoca ancora minorenne, Michael Monarch: diciassette anni (sic) all’epoca del “misfatto”; è con questa formazione che, avverrà il mutamento di nominativo in Steppenwolf  e verrà registrato il primo omonimo album.

 

La scelta del nuovo monicker ricadrà sulle origini “crucche” del leader, infatti, lo stesso, è mutuato dal titolo  in lingua originale del romanzo “Il lupo della steppa”, del connazionale e premio Nobel, Herman Hesse.

 

I quarantasei minuti di viaggio acido e sporco, si aprono con “Sookie sookie”, cover della premiata ditta Don Covay e Steve Cropper, tuttavia soprassedibile: un opener non eccezionale, se pur utilizzata anche per aprire i concerti; passa liscia e se non lascia un retrogusto negativo, nemmeno lascia sentimenti particolarmente positivi.

 

Ad un inizio senza lode e senza infamia, aperta da buone note di piano, scritta in coppia da John Kay e dal produttore Gabriel Mekler (1942 – 1977), segue “Everybody’s next one”, che sotto molti aspetti, sembra voler riecheggiare gli Who più infiammanti: chissà quali sconvolgimenti tra il pubblico avrà saputo portare ai tempi!

 

Purtroppo, per molti (e suppongo tutti) che leggeranno questa recensione, ciò rimarrà un mistero: molto probabilmente, non avrebbe sfigurato quale prima traccia di questo disco, comunque già perfetto di suo, peccato.

 

“Berry rides again”, invece, sembra voler tornare indietro di una decina d’anni, facendo il verso –senza schernire- ai vari stilemi del rock’n’roll, oltre al piano suonato in stile Jerry Lee Lewis, protagonista assoluto dei neanche tre minuti di canzone, verso la fine, vi presenzia un mini-assolo in vago odore di “Johnny B. Goode”: proprio vero, (Chuck) Berry corre ancora una volta... se pur a sua insaputa!

 

Segue, quasi inevitabile, "Hoochie Coochie Man" standard blues di Willie Dixon (reso famoso da Muddy Waters), doveroso omaggio ai maestri del genere dei quali Kay & company ricoprire il ruolo di onorati debitori.

 

Se mi è possibile un piccolo excursus, mi sento di consigliare la versione del 1981, con un all'epoca settantottenne Muddy Waters in duetto coi Rolling Stones, registrata a Chicago, a metà del tour statunitense del periodo: i filmati di quell'esibizione sono di facile reperibilità su varie piattaforme di video sharing (tra cui, manco a dirlo, su Youtube, salvo stravolgimenti delle leggi sul copyright).

 

Si arriva così finalmente alla quinta traccia, la già citata (se non altro per il suo autore, primula rossa degli scompigliati inizi), “Born to be wild”, di concerto con “The pusher” (sempre tra i solchi di questo lavoro), colonna sonora della pellicola di culto “Easy rider” (1969) e di ogni corsa in moto.

 

Spesso citata quale prima canzone heavy metal della storia della musica, ex equo con la cover di “Summertime blues” dei Blue Cheer (anch'essa registrata, assieme all’album “Vincebus eruptum” nel 1967 e rilasciata agli albori del 1968), si apre con un riff tagliente di chitarra e un giro di basso che lascia sconvolti: il testo è un inno alla libertà e una celebrazione del mito on the road; anthem rock generazionale, ma senza tempo, in quanto evergreen.

 

Coverizzata a destra e manca (si rammenta, tra le tante, l’interpretazione eccezionale che ne seppero dare i Blue Oyster Cult), diverrà a sua volta uno standard, anche se, a suo malgrado, relegherà, de facto, la band, all'infamia di one shot wonder per i più, ma band di culto, fuori dal nord America per i pochi.

 

Continua l’highway del blues in “Your wall’s too high”, efficace soprattutto nel ritornello particolarmente accattivante, per poi cadere nella melliflua ma affascinante “Desperation”, più attraente nella musica che non nella mestizia del testo che, comunque, termina in un’invocazione alla forza d’animo. Comunque un gran bel pezzo.

 

Altra punta di diamante, "The pusher", come già detto, anch’essa presente nella soundtrack del leggendario film con Peter Fonda e Dennis Hopper, scritta dal cantante e autore (tra gli altri di “Heartbreak hotel”, cavallo di battaglia del re: Elvis) Hoyt Axton (1938 - 1999), ma da questi, incisa solamente nel 1971; se ne trova una versione di 21 minuti e mezzo, dilatata oltre l'impossibile, nel già citato live "Early Steppenwolf". Ovviamente, qui è presente la versione “essenziale”, poco più di cinque minuti e mezzo.

 

Si arriva al lato A del primo singolo della band, “A girl I knew”, scritta da John Kay con l’autore e collaboratore Morgan Carvett (1944 – 2004); nonostante il 45 giri fosse –a torto- passato inosservato, rimane un’ottima canzone, per quanto un po' troppo simile a quanto suonassero i Doors nel periodo: aperta da una dolce (ma non sdolcinata) e raffinata introduzione di organo, utilizzata anche quale chiusura, come a fungere da parentesi in un paio di minuti abbastanza sostenuti; sembra di ascoltare la band di Ray Manzarek con un diverso cantante, così che anche le parti soliste e l’assolo stesso di chitarra paiono siano suonate da Robbie Krieger in persona, anziché dal ragazzino del “lupo della steppa”.

 

Canzone carina, per quanto banalotta, che assieme a “Desperation” avrebbe meritato più fortuna: peccato.

 

Chiudono “Take what you need”, secondo sforzo scritto a quattro mani dalla coppia Kay/Mekler, quasi un riempitivo, se pur piacevolissima, e “The ostrich”, del solo Kay (come tutte le altre canzoni, salvo citato diversamente), degna esito di un disco meraviglioso ed epocale: principiata da sonorità psichedeliche, si snoda per superando i cinque minuti di durata, correndo a tutto gas lungo il nero asfalto del vinile, concludendosi inaspettatamente con una manciata di secondi di un’insperata jam.

 

Si potrebbe concludere questa carrellata della memoria e questa dichiarazione d’amore verso uno dei prodotti più unici e straordinari mai sfornati nella decade degli anni ’60 del secolo scorso, con un’abusatissima frase ad effetto quale “mezzo secolo e non sentirlo”, ma non sarebbe onesto: le rughe tra i solchi del vinile del flat sono evidenti, così come sono evidenti i cinque decenni che intercorrono tra la sua uscita e i giorni odierni, ed è proprio questo ampio lasso di tempo a glorificare e a rendere lustro (oltre che lustri, passatemi il gioco di parole), più di quanto abbiano già fatto un lungometraggio da antologia della cinematografia mondiale e la storia stessa, ma soprattutto la memoria e la nostalgia.

 

Un album perfetto, costruito, a sua insaputa, quale altrettanto perfetta e sublime fotografia di un tempo.

 

 

VOTO 10 SU 10

 

Recensione a cura di Yuri Sfratti