VENOM-TEMPLES OF ICE

 

Gli anni ’90, si aprono per i Venom, con questo “Temples of ice”, secondo capitolo della “trilogia spuria” iniziata con Prime Evil, e proseguita da questo disco e conclusasi col successivo (“The waste lands”).

 

È il 1991, l’organico è stato allargato ad un quinto membro, V.X.S., un tastierista (sic), decisione inusuale, quanto poco pratico alla causa, tanto che le parti già dalle note dell’opener “Tribes”, ci si trova circondati dal più letale assalto di artiglieria, nessuna pietà per l’ascoltatore, non facciamo prigionieri!

 

 

“Even in heaven”, un pezzo veloce, aperto da un arpeggio introduttivo acustico che ritorna verso il termine della canzone, viaggia veloce come la precedente, uno dei migliori brani di tutta la decina.

 

Il songwriting, nella norma, appare ora ispirato e ora meno, sicuramente, la freschezza compositiva di “Prime evil” è lontana, sembra che il tutto suoni troppo artificioso e plastico, poco ispirato, per quanto non spiacevolmente sgradito e né malaccio nel complesso.

 

Aperto da un basso che avrebbe fatto contento il miglior Lemmy, “In memory of (Paul Miller 1964 - 1990)”, dove gli echi motorheadiani escono da ogni nota sputata a rabbia dagli amplificatori, peccato che durante il viaggio del minutaggio, di tanto in tanto, sembra perdersi in corsa, cercando di riprendersi, senza successo.

 

Come nella seconda, anche “Faerie tale” si apre con un bellissimo intro acustico, e una lead guitar che non stonerebbe nel più ovvio degli album power metal, ma qui ci troviamo nel territorio del thrash e dello speed, e, teoricamente, un certo splendore sonoro, non è di casa: ma si prova di tutto, anche e soprattutto a contaminare, riuscendoci bene, ma non benissimo; il pezzo sarebbe anche piacevole, se non fosse che Demolition Man, col suo cantato, sembra trovarsi nella canzone sbagliata: atteggiamento che, purtroppo, si ripeterà (e che purtroppo, si udirà!) altrove nel disco; qui, appare più spaesato che non nella precedente track.

 

Seguono due riempitivi senza fantasia, quali “Playtime”, dove all'inizio viene citato “Jailhouse rock” (già, proprio il classico del rock’n’roll anni ’50, portato al successo dal re in persona! Elvis) e “Acid”, che nella loro corsa sembrano non lasciare niente; il secondo può apparire quale brano scartato dal precedente “Prime evil”, sembrano essere tornati i cari buoni vecchi Venom, ma solamente per un momento, o forse poco più, perché quando parte l’ulteriore riempitivo “Arachnid”, ritorna la furia cieca, i nostri si rimettono alla carica, ma sarà poca cosa: poche -e scarse- pallottole da sparare.

 

Last but not least, anche in questo disco, come nel precedente, i nostri, si sentono di omaggiare alla loro maniera, e col loro linguaggio sanguigno e… sanguinante, i maestri, i predecessori dei suoi duri: questa volta tocca ai Deep Purple di “Speed king”, che antecede alla finale.

 

Denaturalizzata da ogni orpello alla Jon Lord, e della potenza percussiva e ordinata marchiata Ian Paice, i nostri eroi tentano come possono di rendere onore, non riuscendoci.

 

La title track, appunto, “Temples of ice”, introdotta anch'essa da un oscuro ed inesplicabile arpeggio acustico, costante di questo album insolito, così come la velocità su cui viaggia, e che va a sfociare, in un suggestivo finale di tastiere simil-ambient, buone per creare quell'atmosfera utile a scene di suspence in una pellicola horrorifica: ma questo è un disco dei Venom (o Venomkraft?), e non è un film, né una colonna sonora, ma proprio per questa “sbadataggine” voluta, ci va bene così.

 

Sintetizzando, si potrebbe dire che la produzione si è rivelata abbastanza soddisfacente, con un songwriting non particolarmente ispirato, che cerca senza essere troppo esplosivo, e né troppo combattivo, risulta pulito, ma altresì pesante e ben bilanciato su questi termini, e i fill-in acustici, e la voce più chiara di Tony Dolan, hanno saputo sottolineare il flusso piacevole dei singoli pezzi.

 

I Venom (Atomkraft hanno provato a cambiare pelle con questo disco, là dove non ci riuscirono col precedente; il risultato è buono, ma lascia in bocca un poco di amaro, o per meglio intendersi, di agrodolce: manca un qualcosa che faccia decollare il mood complessivo.

 

Forse, con questo “Temples of ice”, provarono a fare il classico “passo più lungo della gamba”, cercando di uscire dal torbido dell’underground: gli va, se non altro, senz'altro premiata la buona volontà.

 

VOTO: 7 (per l’impegno nel cercare di cambiare in meglio)

 

Recensione di Yuri Sfratti